Sabato, 21 agosto 2021 – intorno alle ore 14:00
Mentre aspetto l’imbarco per il volo che mi riporterà alla quotidiana regolarità della vita, guardo le immagini scattate e riprese durante quattro, intensi giorni di spedizione sul ghiacciaio del Gorner. Mi sembrano irreali – o forse a sembrarmi surreale è la normalità che mi circonda: gente (me inclusa) che si prepara a viaggiare, mangia cibo appena preparato e beve bevande calde, si serve di un bagno per rinfrescarsi.
Solo 24 ore fa ero pronto a calarmi in un ‘mulino’ – il pozzo creato dai ruscelli (‘bedier’, veri e propri fiumi di acqua del ghiacciaio che si scioglie) che scavano la superficie – del ghiacciaio Grenz: profondo oltre 25 metri, un canyon bianco dai riflessi bluastri, il fondo nero nella fredda ombra. Mi sentivo allora vivo, immerso nell‘istante, presente: adesso quel mulino è distante solo poche ore, alcune centinaia di chilometri, e quella che sembra una vita…
Giorno 1 – intorno alle 11:30
L’aria ha una freschezza cristallina e pura, quella dell’alta montagna o della brezza del mare: in questo caso la prima, visto che l’inconfondibile silhouette del Cervino è proprio di fronte a me.
La squadra di scienziati, operatori video e supporto logistico è radunata davanti la piccola stazione del treno che da Zermatt ci ha portati fino a Rotenboden, a 2815m. È metà mattina, e ci dividiamo in due squadre: una parte si spingerà a valle immediatamente, per allestire la strumentazione di speciali droni da esplorazione e iniziare il prima possibile l’osservazione e mappatura remote di alcune grette di ghiaccio sul Grenz; la seconda squadra, che include me, resterà inizialmente sul posto per permettermi di dialogare con il prof. Frank Paul, dell’Università di Zurigo, un esperto geofisico specializzato nello studio dei ghiacciai. È per me un’occasione unica di avere una lezione privata – anche se estremamente accelerata – su cosa sta succedendo nel sistema di ghiacciai che si staglia di fronte a me e si estende per qualche chilometro verso valle. Dopo un paio di ore iniziamo la discesa verso il ghiacciaio e il campo base.
Il sentiero abbraccia il fianco nord della valle, e offre uno spettacolo senza pari: girando lo sguardo da destra a sinistra, il Cervino, il Breithorn, Castore, Polluce, il Monte Rosa dominano la visuale verso l’alto; ma a valle è la distesa di ghiaccio e catturare tutta la mia attenzione. Il ghiaccio sembra in movimento, un inseguirsi di onde, che si spingono a valle, creando canyon dagli stretti meandri, le cui pareti riflettono la luce colorandola di azzurro. Il sole si specchia e frange in migliaia di riflessi. Solo la consapevolezza che tutto ciò che vedo è destinato a scomparire attenua il senso di gioia e meraviglia che mi pervade mentre, passo dopo passo, mi avvicino al campo base.
Dopo circa un’ora e mezza di percorso, ci allontaniamo dal sentiero, e adesso guardiamo in direzione sud scendendo verso la valle. Alessio, uno dei geologi che ci accompagna, conosce questi luoghi intimamente: questa è la sua ventitreesima spedizione sul Gorner, da quando ha scritto la tesi del suo dottorato proprio sul ghiacciaio. “Sono più di venti anni. La prima volta, già da questa altezza si passava sul ghiaccio, poi si scendeva tranquillamente con i ramponi”, mi dice. Io guardo giù, verso il bianco a valle: saranno un’ottantina di metri di differenza.
Poco dopo giungiamo a una scala a pioli di ferro, e a uno a uno ci caliamo verso la base. Indossiamo i ramponi – per me è la prima volta! – e finalmente saliamo sul ghiaccio, per poi lentamente attraversarlo verso ovest, dove si trova il nostro campo base. Il Gorner si è staccato, ormai da anni, dal Grenz, per cui per poter arrivare al campo base, che si trova sulla morena nord, dobbiamo prima attraversare il fiume che si forma dallo scioglimento del ghiaccio sotto i nostri piedi (il Gorner) e che poi svanisce sotto l’altro ghiacciaio (il Grenz). Ma è pomeriggio, il sole è alto, e il fiume che i nostri amici hanno agevolmente attraversato al mattino, quando lo scioglimento del ghiaccio è un po’ più lento, è adesso una piena schiumante, le rapide che si infrangono con violenza contro le rocce.
C’è un guado: ma è largo, e profondo, per cui per attraversarlo bisogna bagnarsi. Io però sono convinto che si possa attraversare il ghiacciaio, più a monte, per poi calarsi dall’altro lato, direttamente sul lato più a sud della morena. Paolo, una espertissima guida alpina che ci accompagna, la pensa come me: per cui ci stacchiamo dal gruppo, e in due risaliamo la china di ghiaccio. E in effetti troviamo un segmento dove sembra ci sia una parete che porti direttamente sulla base: ma io non sono attrezzato per poterlo fare da solo. Paolo si mette al lavoro, piantando tre grosse viti nel ghiaccio per fissare la sua corda, che poi assicuro alla mia imbracatura. Piantando i ramponi nel ghiaccio quasi verticale, mi calo goffamente fino alla base con l’aiuto di Paolo, il quale scende poi agilmente da solo aiutandosi con la piccozza; insieme continuiamo a camminare verso la morena dove troviamo il resto del gruppo, che ride con spensieratezza dopo aver attraversato a piedi nudi le acque gelide del fiume.
Dopo circa dieci minuti raggiungiamo il campo base: ci attende un piccolo villaggio di tende, una dozzina di vari colori e dimensioni. I suoi abitanti ci accolgono sorridendo, sono arrivati ore prima per allestire il campo e sono contenti di vederci. Mi viene assegnata una tenda, e ne approfitto per disfare lo zaino e rinfrescarmi. La mia giornata prevede ancora alcune interviste con Susanne, il capo dell‘Ufficio Clima dell’Esa, che mi spiega come vengono utilizzate le risorse e i satelliti dell’agenzia per aiutarci a seguire l’evoluzione del clima a livello planetario. Quando rientra il gruppo con i droni, che ha passato varie ore a mappare con sofisticati strumenti – laser, lidar, video e foto – una caverna di ghiaccio, è finalmente ora di cena.
L’acqua calda è già bollente, e il cibo liofilizzato da reidratare mi è, non inaspettatamente, familiare: del tutto analogo a quello che mangiavo sulla ISS, qui sul ghiacciaio è quasi confortante.
La stanchezza comincia a farsi sentire, soprattutto quando tramonta il sole e il freddo attraversa inesorabile i vari strati di tessuto tecnico che indosso.
Voglio però aspettare che, oltre al sole, tramonti anche la luna: non appena la sua luce svanisce al di là del Breithorn, il cielo si popola di stelle, molte più di quante ne abbia potute ammirare negli ultimi due anni. Vedo Saturno, inseguito da Giove, luminoso, nitido, brillante nell’aria fredda e limpida. Penso a una sera, sulla ISS, quando insieme a Christina osservammo dalla Cupola i quattro satelliti più grandi di Giove, visibili con un semplice binocolo. Potrei farlo anche da qui, se ne avessi uno a portata di mano. Ma il ricordo mi basta. Sorrido, e sento quasi le palpebre pesare. È ora di rientrare nel mio ‘crew quarter’ terrestre, la tenda arancione e bianca che per tre notti sarà il mio rifugio.
Giorno 2 – intorno alle 07:30
Credevo di essere abituato alla scomodità, ma il freddo, il jet lag e soprattutto le rocce sotto la schiena hanno avuto la meglio. Ho dormito poco, ma l’aria fredda che entra in tenda mi dà energia, e in pochi minuti sono fuori, pronto a iniziare la giornata. Una nebbia gelida nasconde il campo e attenua suoni e colori, ma non appena il sole fa capolino da dietro il Monte Rosa la bruma si dissipa, e il tepore fa piacere dopo l’intensa gelata notturna.La colazione è spartana e veloce, ma il caffè appena preparato ha lo stesso sapore di tutte le moka che ho avuto il piacere di gustare. E forse, visto che mi aspettavo un caffè liofilizzato, è ancora più buono e profumato: anche perché qui, circondati dalla fredda sterilità del ghiaccio, ogni aroma sembra ancora più intenso – come sulla ISS.
I volti assonnati ma sorridenti degli altri membri della spedizione si raccolgono intorno alla tenda che serve contemporaneamente da cambusa, ufficio e sala riunioni. Quando tutti hanno fatto colazione, le nostre due guide – Alessio e Paolo – si avvicinano a Cesco, un geologo e speleologo che conosco da tanti anni: mi ha portato sottoterra con CAVES e CAVES-X (in Sardegna e in Sicilia), e insegnato geologia su campo con PANGAEA (Sulle Dolomiti e a Lanzarote): nonostante la giovane età, è uno degli scienziati più esperti del mondo – e un caro amico. Cesco descrive come arrivare al primo obiettivo della giornata, un mulino che è stato esplorato il giorno prima con gli speciali droni del Flyability team. “Seguite le creste sul ghiacciaio, sono tutte parallele, cercando di puntare i tre grossi crepacci a monte, quelli che sembrano dita”, Cesco indica con la mano, riparando con l’altra gli occhi dal riflesso bianco del sole sul ghiaccio: “Poi bisogna spostarsi verso est, dove vedete quei blocchi franati. Troverete una zona piana, un canyon: seguendolo troverete il mulino”.
La squadra di operatori video, le due guide, Susanne e io indossiamo ramponi e imbragatura, e ci inoltriamo verso sud, attraversando il Grenz per largo legati in cordata. Seguendo una delle creste più pronunciate, arrampicandoci su dune di ghiaccio, mi accorgo del costante suono di acqua che scorre: il ghiacciaio perde tra i dieci e i venti centimetri di altezza ogni giorno, tra la primavera e l’autunno. Un volume enorme di acqua, che scava i canali ai lati dei quali ci inerpichiamo, e che poi sparisce nel buio di pozzi di ghiaccio che arrivano fino alla base del ghiacciaio, e poi a valle in un turbinio di schiuma.
Procediamo lentamente: i ramponi si aggrappano al ghiaccio con uno stridio dissonante, il suono rauco del metallo che gratta la superficie congelata si mescola a quello molto più musicale dell’acqua che scorre. Quando il suono aumenta fino a diventare un fragore di cascata, Alessio ci fa cenno di avvicinarci con cautela a un crepaccio: c’è un altro mulino, non quello che stiamo cercando ma non per questo meno spettacolare.
L’acqua scorre perfettamente limpida e trasparente, poi svanisce nel tunnel verticale scavato nel ghiaccio, al di là del nostro sguardo. Gli operatori video fanno alzare in volo i loro droni, e si spingono lentamente all’interno del pozzo: ma non possono osare troppo, rischiando di perdere il contatto visivo con il mezzo, e si accontentano quindi di riprendere semplicemente la bellezza effimera del mulino prima di riportare i droni a terra e di continuare la nostra escursione.
Quando arriviamo alla base del ghiacciaio il sole e già alto. Come da istruzioni, ci spostiamo verso est prima di procedere lungo uno dei costoni alla ricerca del mulino esplorato da Cesco il giorno prima. Alessio trova una piccozza da alpinista abbandonata: la fattura è vecchia, il manico è in legno e perfettamente conservato. Paolo lo osserva con sguardo esperto: ‘Così non ne fanno più da moltissimo tempo. Potrebbe essere anche degli anni ’30… un pezzo da museo”. Tutti ci facciamo la stessa domanda, ma nessuno la esprime ad alta voce: cosa sarà successo al proprietario, quasi cento anni fa?
Il mulino che stiamo cercando sembra eludere i nostri sforzi. Sappiamo che non può essere lontano… ma il paesaggio è talmente uniforme, con le dune come onde di ghiaccio, che se anche fosse pochi metri al di là del costone che stiamo seguendo potremmo non vederlo.
Uno degli operatori suggerisce di mandare in volo il drone: dall’alto, con un po’ di fortuna, potremmo trovare il mulino e poi, regolandoci sulla verticale del drone stesso, spostarci con sicurezza. L’idea piace a tutti, anche perché comporta una piccola pausa: l’aria qui è abbastanza rarefatta da richiedere un minimo di adattamento, e siamo ben contenti di fermarci un attimo. Il drone si solleva e l’operatore comincia a scansionare gli avvallamenti con la videocamera, fino a trovare un fiume particolarmente grosso.
Seguendolo verso valle, ci accorgiamo che la sua portata diminuisce, poi comprendiamo che, in realtà, sta scorrendo in direzione opposta: tornando indietro con il drone, osserviamo nel piccolo schermo qualcosa che potrebbe essere il mulino, anche se dall’alto non possiamo esserne del tutto sicuri. Sempre meglio che brancolare nel buio: il nostro obiettivo si trova a due o trecento metri di distanza, e dopo pochi minuti troviamo la nostra destinazione.
Si tratta di due pozzi distinti: il primo è un residuo di un mulino più vecchio, le acque che lo hanno scavato hanno trovato un passaggio più facile e hanno scavato il secondo, poco più a valle, con le acque azzurrissime e perfettamente trasparenti che si precipitano nel buio in fondo in un turbinio fragoroso di spuma e gocce in sospensione, creando cerchi di arcobaleno quando la luce le attraversa.
Chiedo se sia possibile provare a calarsi dentro il primo tratto del mulino. Alessio e Paolo preparano un ancoraggio di sicurezza: poi Alessio si cala per circa sei metri dentro il pozzo, fino a trovare una piattaforma – quasi un balcone – sul quale poggiarsi. Da lì, ci dice, è possibile vedere quasi fino in fondo, ma non è prudente spingersi oltre. Quando mi calo anch’io capisco perché: da lì poi sarebbe impossibile restare asciutti, l’acqua scende come una cascata verticale e senza attrezzatura specializzata – e in mancanza della corretta preparazione – devo accontentarmi di osservare da dove sono. Sotto di me si erge una fenomenale lama di ghiaccio, scolpita dalle acque nella forma di una pinna di un mastodontico leviatano, o la gola di un demonico gigante che inghiotte senza scampo tutto ciò che ha l’imprudenza di avvicinarsi troppo. Il frastuono è assordante, tale la quantità di acqua disciolta che si riversa senza tregua nel pozzo di ghiaccio… e comunque non sento di aver molto da dire, perché ciò a cui sto assistendo è perfettamente chiaro: un ghiacciaio muore, dissanguandosi nel nulla. È ora di tornare al campo base.
Non so se è solo suggestione, ma meriggiare proprio sotto la facciata nord del Monte Rosa mi permette di godere del progressivo colorarsi di rosa della neve. Infatti già la luce si poggia in diagonale sulle sue nevi quando, dopo pranzo, ci incamminiamo per la nostra seconda escursione giornaliera, e la parte più alta del massiccio comincia a mostrare la sua tipica tinta.
Procediamo verso nord, spostandoci tra le rocce della morena laterale per cercare l’ingresso di una grotta di contatto – cioè formatasi a contatto con la base rocciosa del ghiacciaio – che è possibile esplorare in sicurezza.
Il tunnel è quasi perfettamente cilindrico, e piuttosto stretto, costringendomi a piegarmi per entrare all’interno del tubo ghiacciato.
La grotta, mi spiega Alessio, è scavata dal doppio effetto dell’acqua che scava dalla superficie e giunge alla base del ghiacciaio – trasformandosi in un fiume che scorre sulle rocce – e dall’aria calda che entrando dall’esterno si diffonde nei meandri tridimensionali della struttura del ghiacciaio.
All’ingresso la parete di ghiaccio è sottile, abbastanza da permettere alla luce di penetrare, diffondendosi in un azzurro oniricamente irreale: o meglio, un azzurro che toccando la realtà le infonde la stessa consistenza di un sogno. Mi sorprendo a toccare la parete, quasi per rassicurarmi: perfettamente liscia, perfettamente fredda, illusoriamente solida.
Spingendoci all’interno, la volta si allarga fino a diventare una cupola alta vari metri, con corridoi che si irradiano in varie direzioni, allargandosi, restringendosi, svanendo nel buio. Alessio ha già esplorato la grotta, che è relativamente piccola, e mi indica quali corridoi sono viabili. Il corso d’acqua principale proviene da una apertura nel ghiaccio e sparisce in un’altra; dappertutto il costante gocciolare ci ricorda che siamo in un luogo temporaneo, e che presto la volta sarà troppo sottile per sostenersi e crollerà, trasformando la grotta in un crepaccio. Mi inoltro nei cunicoli, spinto solo da curiosità voglia di perdermi un po’. È facile perdere il senso dell’orientamento nel buio assoluto di una grotta: ma qui mi ritrovo a inseguire quel poco di luce che riesce a filtrare tra i metri di ghiaccio che mi sovrastano, e riesco a mantenere un minimo di consapevolezza. I miei occhi, e la mia mente, si riempiono di memorie, ombre che vanno dall’azzurro quasi bianco al blu profondissimo.
Forse è la sua fragilità a rendere la fugace, temporanea bellezza di questo luogo ancora più preziosa: sono cosciente che non avrò mai più l’opportunità di rivederla. Ogni grotta che ho potuto esplorare mi regala fortissime emozioni, e uscendo mi sono sempre ripromesso che ‘un giorno’ sarei tornato. Vana promessa, e tuttavia possibile. Non qui: questo posto è transitorio, e già domani sarà cambiato.
Quando mi ritrovo fuori, da uno sbocco diverso da quello di entrata, seguo senza esitazione la parete ghiacciata verso la mia sinistra, per riunirmi agli altri.
Ci incamminiamo per rientrare al campo base: il sole è già prossimo a nascondersi dietro la cima delle montagne più alte, anche se passeranno ancora alcune ore prima che il buio sia completo.