Karen, Fyodor and LUca are gearing up for their return to earth. Credits NASA

Karen, Fyodor and LUca are gearing up for their return to earth.
Credits NASA

Il portello della Soyuz appena chiuso è come la copertina di un libro appena finito di leggere. Il senso di abbandono è sorprendente, fino a che non si comprende che l’ultima pagina non è altro che l’invito ad aprire la prima del prossimo libro.

Con questo pensiero mi consolo mentre mi spoglio dei miei abiti “civili”, un semplice pantalone e T-shirt, per indossare quelli che mi accompagneranno nel viaggio di rientro.

Due speciali indumenti, chiamati Kentavr, sono stati appositamente sviluppati in Russia per facilitare il rientro: si tratta di due gambaletti e un paio di short elastici, che avvolgono i polpacci, i glutei e le cosce, per minimizzare il flusso di sangue verso la parte bassa del corpo – evitando così possibili malori dovuti a un diminuito afflusso di sangue alla testa. Li indosso direttamente sopra la pelle. Intorno al petto, sistemo la cintura con gli elettrodi per registrare il battito cardiaco, la stessa con la quale sono arrivato sull’ISS. Sopra tutto, indosso la sottocombinazione Camelia, una tuta aderente in semplice cotone.

Poi inizia la paziente vestizione della tuta spaziale Sokol, certamente non complessa come lo scafandro da attività extraveicolare EMU, ma altrettanto importante. Karen mi aiuta a stabilizzare il torso mentre io mi infilo nella guaina ermetica, poi aggancio i cavi delle cuffie e della fascia biomedica. Con calma, mi sigillo all’interno della tuta, stringendo con cautela ogni laccio, controllando con cura ogni cerniera. Nel frattempo Fyodor ha già completato i primi controlli della navetta, e i computer di bordo sono già accesi e pronti a reagire ai nostri input.

Ancora una volta sono il primo a installarmi nel sedile: la microgravità mi facilita il compito, e ricordo con quanta fatica effettuavo gli stessi movimenti, a terra, appena sei mesi fa.

Karen è pronta nel posto destro in pochi minuti, poi è il turno di Fyodor: quando spegne le luci del modulo abitativo della Soyuz, è per l’ultima volta. Seguendo le procedure nei nostri manuali, Fyodor sigilla il portello interno, poi aggancia le cinture nella sua postazione. Quante volte, in simulazione, ho visto questa identica immagine? Il senso di deja vu è mitigato dalla presenza della torcia olimpica, fermamente allacciata alla struttura della capsula di rientro, proprio tra me e il comandante.

La sequenza di sgancio non inizierà che fra qualche ora, ma siamo già impegnati con i controlli di tenuta stagna. In tutto e per tutto identici a quelli eseguiti per il re docking di appena una settimana fa, Fyodor, Karen e io navighiamo tra le procedure con facilità. Tutto funziona perfettamente, senza sorprese – in questo momento non sarebbero affatto gradite.

Sequenza di sgancio

The Soyuz TMA-09M spacecraft departs from the International Space Station. Credits: NASA

The Soyuz TMA-09M spacecraft departs from the International Space Station.
Credits: NASA

Il nostro controllore, da terra, segue ogni nostro movimento grazie alla telemetria, confermando ogni nostro commento e gli orari in cui invieremo i comandi di attivazione della sequenza di sgancio. È mia prerogativa, come ingegnere di bordo, inviare questi comandi, mentre Fyodor sarà impegnato nel controllo visivo del distacco: al momento previsto, eseguo in russo un conto alla rovescia, e do il via alla sequenza. Il ronzio dei motori elettrici che aprono i ganci della Soyuz è inaudibile attraverso le cuffie: ma in pochi minuti percepiamo il leggerissimo movimento della navetta. Ci siamo sganciati. La Soyuz accende i motori secondari per garantire la separazione, poi per circa due orbite saremo in deriva libera, allontanandoci dalla Stazione. Non posso descrivere la sensazione di quel distacco, ma so che sono contento di non poter vedere l’ISS mentre i suoi contorni si trasformano in una luce che sbiadisce fino a sparire. Forse non sarò mai veramente pronto a lasciarla. Forse non l’avrò mai veramente lasciata.

Le due orbite scorrono tra metodici controlli dei parametri di bordo e ripasso di procedure di rientro. Fyodor, al suo terzo volo di Soyuz, ancora una volta ci ricorda come prepararci alle fasi più impegnative, approfittando della temporanea calma.

Mi ritrovo a guardare fuori dal mio oblò: ogni volta ripeto che controllo l’assetto della navetta – ma le nuvole, che si confondono con le nevi dei ghiacciai che indovino fra i picchi che scorrono sotto di me, catturano la mia mente, folgorandola con la stessa intensità di quando, sei mesi fa, i miei occhi si ubriacarono dello stesso contrasto tra bianco e azzurro.

Poi è il momento: come centinaia di volte in simulazione, mi sistemo nel mio sedile fino a sentirne il contorno lungo la schiena, stringendo le cinture di sicurezza con tutta la mia forza.

Sequenza di separazione

Separation sequence graph. Credits: NASA

Separation sequence graph. Credits: NASA

Le mie dita, protette dai guanti, sollevano la guardiola che protegge i tasti che utilizzerei in caso di emergenza – non voglio intralci nel caso in cui fossi costretto ad attivarli. Mentre Fyodor configura il suo schermo per inviarne l’immagine al Centro di Controllo, inizio, ancora una volta in russo, l’ennesimo count down. La Soyuz risponde perfettamente, ogni indicatore è in perfetto orario: la vibrazione che testimonia l’accensione del motore principale conferma la spia che si accende nel mio schermo. Per poco più di quattro minuti il comandante legge i parametri della decelerazione mentre io li confronto con quelli calcolati in precedenza. La differenza è minima. Aspettiamo il momento in cui il computer calcola 128m/s, e lo spegnimento del motore: inizio un ennesimo conto alla rovescia, ad alta voce: “5, 4, 3, 2, 1…1, 2, 3…” le mie dita sono già sul tasto di arresto manuale del motore, ma la procedura mi intima di attendere ancora prima di attuare il pulsante. E dopo tre, lunghissimi, secondi, il motore viene spento dal computer di bordo, e posso rilassarmi: la sequenza di separazione avverrà regolarmente e automaticamente. Si tratta di attendere solo qualche minuto: gli indicatori sui nostri schermi indicano che tutto procede regolarmente, i tre secondi di ritardo allo spegnimento possono essere facilmente corretti durante la fase atmosferica di rientro.

Al momento previsto, come un orologio perfettamente calibrato, il computer di bordo dà inizio alla sequenza di separazione, sottolineata da vari allarmi, suoni e luci che, dopo centinaia di simulazioni, non solo non mi sorprendono ma sono benvenute conferme che tutto procede regolarmente. I formati sui nostri schermi cambiano automaticamente, ma io ho alcuni controlli da fare prima di ritornare sulla pagina di discesa. Le mie mani si muovono automaticamente mentre verifico che il paracadute principale è già selezionato, poi apro le valvole che permetteranno la ventilazione dopo l’atterraggio e chiudo quella che, fino a un istante fa, permetteva il passaggio dell’ossigeno alle nostre tute dal modulo di servizio – che si è appena trasformato in un relitto pronto a disintegrarsi nel plasma che fra poco ci circonderà.

L’ingresso in atmosfera

Soyuz TMA-09M seen from BA15. Notice aircraft cockpit reflection.

Soyuz TMA-09M seen from BA15. Notice aircraft cockpit reflection.

Il mio ultimo sguardo dallo spazio mostra una rotazione lenta e non inattesa. Tutto fuori è di un nero che conosco bene. Riporto lo sguardo agli strumenti di bordo: voglio essere sicuro di catturare l’ingresso in atmosfera, che la navetta calcola in base alla decelerazione. Nel preciso istante in cui il computer indica l’ingresso, giro la testa dentro il casco della mia Sokol per guardare fuori: l’oblò mi restituisce una luce bianca e densa, come se la Soyuz sprofondasse in uno spesso liquido. Il peso comincia a farsi sentire: leggo i dati sul mio schermo, confermando ad alta voce quelli letti da Fyodor. Ad appena 0.5g mi sento schiacciato dalla mano di un gigante che mi fa sprofondare dentro il mio sedile: con il braccio destro cambio il formato del computer per leggere i parametri dei sistemi di bordo, ed è come se dovessi sollevare il braccio di un’altra persona. Quando leggo 2.0g diventa difficile respirare, con il petto schiacciato dal peso dello scafandro e del corpo stesso: ma non è che l’inizio. Faccio uno sforzo per guardare ancora fuori, ma ne vale la pena: lo spettacolo di colore che mi aspetta fuori dall’oblò mi ipnotizza – rosso e arancione dominano il campo visivo, e a velocità supersonica vedo quel che rimane dello schermo termico che brucia passando come un meteorite lungo la direzione di volo, disintegrandosi a 1600 gradi di calore bianco.

“Karen, guarda, guarda fuori…”, è tutto quel che riesco a dire.

Credits: ESA-D. Detain

Rescue helicopters.
Credits: ESA-D. Detain

Le cifre continuano a scorrere inesorabili, 2.5g, 3, 4, 4.5g. Adesso sento il peso della pelle sulla gola che mi schiaccia la laringe, e quando leggo il picco massimo, a 4.91g, è con molta fatica che riesco a vocalizzare i parametri. Ma dura solo alcuni, seppur lunghissimi, istanti: la fase discendente della decelerazione è accolta con sollievo da tutti noi. Adesso “cadiamo” nell’atmosfera terrestre a circa 400m/s, e Fyodor a intervalli regolari inizia il contatto radio, sperando di cogliere il segnale degli elicotteri di soccorso.

Atteraggio

Soyuz TMA-09M is seen moments before it lands southeast of the town of Zhezkazgan, Kazakhstan with the crew of Expedition 37. Credits: NASA/C.Cioffi

Soyuz TMA-09M is seen moments before it lands southeast of the town of Zhezkazgan, Kazakhstan with the crew of Expedition 37. Credits: NASA/C.Cioffi

Quando inizia la fase di apertura del paracadute, la sensazione è di essere sulle montagne russe: la navetta è sballottata da una parte e dall’altra, mentre contemporaneamente ruota sull’asse a 13 gradi al secondo, ma io mi sento benissimo e rido di pura gioia. Gli ultimi eventi della discesa si susseguono rapidamente: sullo schermo del computer osservo la cabina depressurizzarsi, e so che di lì a poco si sgancerà quel che rimane dello schermo termico che ci ha protetti dal calore infernale del plasma. Con un sussulto ce ne liberiamo, poi i tre sedili si muovono rapidamente verso il cockpit, spinti dal sistema pneumatico di ammortizzazione.

Dagli elicotteri i soccorritori ci indicano le quote – 2000 metri, 1500… con una rapidità sorprendente è il momento di stringere le cinture per l’ultima volta. “Prepararsi all’impatto!”… mi riempio d’aria i polmoni, chiudo la bocca, irrigidisco tutti i muscoli cercando di spingere il collo dentro il sedile. Poi l’impatto, che si confonde con l’accensione dei retrorazzi, che mi svuota i polmoni attraversandomi tutto il corpo, mentre il sedile sprofonda riducendo la decelerazione da 20g a circa 5g. Quel che resta della Soyuz rimbalza ancora un paio di volte, prima di fermarsi su un fianco. Dentro, noi ci guardiamo intorno, tre pollici sollevati davanti a noi per confermare che stiamo bene. Io sto ridendo come un bambino. Sento fortemente il senso di simmetria, quasi palindromica, di quello che sto vivendo: sei ore di volo mi hanno portato sulla Stazione – sei ore fa ero ancora a bordo. Ora sono tornato. Nulla è cambiato – nulla sarà mai uguale.

NASA Flight Engineer Karen Nyberg, left, Expedition 37 Commander Fyodor Yurchikhin of Roscosmos, center holding the Olympic torch, and ESA Flight Engineer Luca Parmitano sit in chairs outside the Soyuz capsule just minutes after they landed Credit: NASA/Carla Cioffi

NASA Flight Engineer Karen Nyberg, left, Expedition 37 Commander Fyodor Yurchikhin of Roscosmos, center holding the Olympic torch, and ESA Flight Engineer Luca Parmitano sit in chairs outside the Soyuz capsule just minutes after they landed
Credit: NASA/Carla Cioffi